Abbiamo letto l’intervista dell’assessora Francesca Corso e ci sentiamo di puntualizzare alcune questioni in merito al suo invito a sostenere il cosiddetto “Burqa Ban” promosso dalla Lega che dice “no al velo islamico integrale”.
Prima di tutto, il femminismo difende la libera scelta, anche quando le singole donne scelgono uno stile di vita che noi – in quanto laiche, italiane e occidentali – non troviamo consono. Ma prima ancora di questo, il femminismo riconosce dignità a tutte le donne in quanto esseri umani, a prescindere dal paese di provenienza, dal colore della pelle o dai valori religiosi. Dare per scontato che chi si cela dietro al velo integrale sia obbligata con la violenza da un parente o un partner è una forma di stereotipo che colpisce le donne migranti due volte, in quanto straniere e in quanto aderenti a una diversa religione. Eppure questi sono fattori che non rendono in automatico vittime di violenza, né stupide, né tanto meno inconsapevoli.
In quanto femministe, finché una sorella non chiede aiuto per uscire da una situazione di violenza ci sentiamo in dovere di crederle e di riconoscerle il diritto delle sue decisioni, anche quando quelle decisioni non corrispondono con le nostre scelte personali. Anche se può metterci a disagio non vedere il volto della nostra interlocutrice, nascosta dietro il niqab, dobbiamo riconoscere in lei una donna nostra pari.
Veniamo dunque alle effettive straniere vittime di violenza domestica: in che modo il Burqa Ban le aiuterà?
Vietare l’utilizzo in pubblico del velo integrale a una donna che vive una condizione di sottomissione a un padre o a un marito renderà quella donna più libera? Di fatto, l’esperienza dei divieti già posti in Europa insegna che le donne che fanno parte di comunità di vedute rigorose sul niqab tendono a essere obbligate a restare in casa, piuttosto che mostrare il viso in pubblico. Ciò restringe ancora di più l’orizzonte della loro vita.
Basti pensare che ai corsi di italiano per straniere: in particolare con alcune comunità, è necessario garantire che tutto il personale coinvolto nel progetto di formazione – dalle insegnanti fino alle volontarie che aprono la sede – sia femminile perché alle donne sia permesso di frequentare e di imparare la lingua del paese in cui si trovano.
È chiaro, anche questa è una forma di imposizione, ma come si aiutano le donne arrivate in Italia che non conoscono la lingua, tantomeno la legge, non hanno idea dei diritti che possono esercitare qui né degli aiuti che potrebbero ricevere se decidessero di allontanarsi da una situazione di violenza?
Con occasioni di incontro, prima di tutto: corsi, spazi per i bambini, iniziative con invito alla comunità, attività attraverso o in collaborazione con le scuole frequentate dai figli. Spazi di dialogo, senza giudizio, dove queste donne possano allacciare relazioni anche esterne alla famiglia o alla comunità di provenienza e ampliare il proprio raggio di azione e da lì poter chiedere una mano per tirarsi fuori da situazioni pericolose.
Burqa Ban: un’imposizione a curare un’imposizione non è mai efficace
Da femministe, crediamo che sia più importante portare avanti progetti che sollecitino e favoriscano l’incontro con le donne migranti e che le facciano sentire benvenute, anziché temere di essere aggredite per strada perché portano il velo. Iniziative che richiedono tempo, impegno e soprattutto apertura mentale. Tutte cose che un mero divieto non include.
Abbiamo inoltre dei dubbi sull’applicazione di un provvedimento del genere: come sarebbero formate le forze dell’ordine ad agire in caso di controllo di una donna velata integralmente? Si garantirebbe personale femminile per effettuare il riconoscimento? Cosa sarebbero chiamati a fare gli agenti, a scoprire le donne contro la loro volontà?
Inoltre, come si concilia questa iniziativa con l’aumento del turismo proveniente dal mondo musulmano che si è registrato in Italia negli ultimi anni? Si rischierà l’incidente diplomatico o, come nel caso della gestazione per altri, si chiuderà un occhio quando la donna velata in questione sarà la moglie di un ricco e potente alleato politico o commerciale?
Contestiamo la violenza e la limitazione della libertà, non il velo
Difendendo la libertà di scelta delle donne, crediamo che un’imposizione, in un senso o nell’altro, non possa conciliarsi con parole quali libertà o civiltà. La lotta delle nostre sorelle in Iran e in Afghanistan non è contro il velo di per sé, ma contro le leggi ingiuste che limitano le scelte, il diritto allo studio, le possibilità di carriera e ogni aspetto della loro vita. Abbiamo assistito i talebani rendere una cosa sporca persino la voce delle donne, a cui oggi è vietato parlare o cantare in pubblico o davanti a uomini estranei alla propria famiglia.
Come sosteniamo questa lotta nei paesi dove l’Islam è usato come una forma di controllo e repressione sociale, però, ci sentiamo in dovere di ribadire che nel nostro Paese iniziative come il “Burqa Ban” sono forme di repressione stereotipanti che rischiano di complicare la vita di donne già in condizioni difficili o pericolose. Combattere un’imposizione con un’altra imposizione non porterà altro che inasprire il contesto e rendere ancora più difficile per le vittime di violenza chiedere aiuto.
Dialogo con le comunità e le minoranze per contrastare la violenza
E parlando di violenza domestica, riteniamo che sia fondamentale attivare e aumentare percorsi che, qualora le donne migranti a Genova aspirino a una vita più libera e indipendente, le mettano in condizione di prendere le distanze da mariti e familiari abusanti.
Il nostro pensiero torna infatti a Sharmin Sultana, la 32enne bengalese che nel 2023 è morta per mano del proprio marito, lanciata dalla finestra del loro appartamento di Sestri Ponente.
Inizialmente il caso sembrava un suicidio eppure, stando alla ricostruzione della Procura, era contrario al desideriodella donna di acquisire una maggiore libertà e autonomia e per questo ha deciso di uccidere Sharmin. Il 9 gennaio di quest’anno si è aperto il processo a carico del marito, che dovrà rispondere delle accuse di omicidio e maltrattamenti in famiglia.
Aveva all’incirca la stessa età la donna albanese che il 7 gennaio 2025 ha deciso di suicidarsi lanciandosi dal quartopiano del palazzo di Sampierdarena in cui viveva, seguita dalla sorella maggiore. Axhere Gjoni temeva di perdere la custodia dei figli a favore dell’ex marito, un connazionale da cui si era separata per via dei maltrattamenti e delle pretese che adottasse uno stile di vita più modesto e limitato in nome della fede islamica. Sappiamo che questa donna era senza lavoro e che temeva che questo pesasse più della condanna e delle denunce a carico dell’ex-coniuge per violenza domestica.
Uscire da una situazione di violenza domestica non è mai semplice, neanche per le donne italiane
Quando non si ha una rete di supporto – o peggio, ne si viene tagliate fuori quando si prendono le distanze dagli abusi familiari – è ancora più complicato. Per questo è fondamentale creare un dialogo con le comunità delle minoranze etniche presenti in città che si basi sul confronto, e non su divieti e messe al bando, per aiutare le donne migranti vittime di violenza a far sentire la propria voce e a liberarsi dalla violenza.
Cominciando però dal riconoscere e ascoltare sempre la voce di queste donne, in tutto e per tutto come nostre pari, a prescindere dal velo.